La fede è una “questione privata”? Un problema di verità e tolleranza

Fede in pubblico

Chiunque oggi decida di scrivere di un certo argomento da un punto di vista esplicitamente cristiano, specie se in Europa, non può non percepire – appena seduto davanti alla pagina bianca – il bisogno di convincersi che quello che sta per fare sia un gesto legittimo. E chi scrive questo articolo non fa eccezione.

Pensando ad uno spazio online come questo, chiaramente cristiano ma volto a dialogare su ciò che ci circonda anche con chi cristiano non è, la domanda che continuava ad accompagnarmi era: “È ancora giusto farlo oggi?”.

La domanda nasce dalla consapevolezza che, iniziando a scrivere, si finirà per trasgredire due assunti, più o meno impliciti, del discorso comune: primo, la religione non deve avere più posto nella sfera pubblica e politica della nostra società, ormai troppo progredita per badare a queste superstizioni; secondo, proporre la propria visione del mondo e la propria fede come assolutamente ed esclusivamente vere è sintomo di un pensiero offensivo e intollerante, e come tale va condannato.

Quindi, la fede sarebbe, nella migliore delle ipotesi, una “questione privata”.

Ma lo è davvero? È davvero legittimo relegarla a questo spazio? Ho provato a guardare più da vicino queste due posizioni.

Una questione mai (realmente) superata

Riguardo all’esclusione della fede dalla sfera pubblica, questa prospettiva è da secoli condivisa da buona parte di quella società che si vuole più istruita e razionale, e l’affermazione di una visione laica della cosa pubblica è alla base di gran parte delle libertà conquistate dalle società moderne. Ma la religione è effettivamente uscita fuori dalla scena pubblica? Dichiararne avvenuta la scomparsa è davvero una constatazione neutrale?

Diversi storici si sono occupati della persistenza della religione nel discorso pubblico1, dall’Illuminismo ai giorni nostri, e quello che appare chiaro è questo: la fede rimane sempre una delle fondamentali forze in campo. Che sia perché è in grado di darci risposte e speranza di fronte alle domande più sconfortanti, o di appagare il bisogno di “spiritualità” insito nella nostra natura, la fede rimane in gioco anche quando la si ignora o la si accantona deliberatamente. Oggi è la scena politica a dimostrarlo, attraverso la strumentalizzazione dei suoi simboli e il richiamo a presunte identità etnico-religiose nazionali ad opera dei più acclamati leader mondiali, dagli Stati Uniti alla Russia… Italia inclusa.

L’idea di un cammino in linea retta verso una società sempre più laica e razionale non sembra, di fatto, essersi mai realizzata in termini così assoluti. Neppure in Europa, dove tale idea rappresenta comunque la tendenza dominante. Piuttosto, essa è parte di un quadro molto complesso e sfumato, all’interno del quale convive con le idee di larghe percentuali di popolazione che si definiscono legate a qualche religione, ma non praticanti. Mentre altri, ad esempio, si professano non aderenti ad alcun credo e non pensano che una fede sia necessaria per una solida morale individuale, ma trovano più affidabili leader che sbandierano valori religiosi quali fondamenta della propria politica, e dichiarano (il 49%) che la religione ha un peso «in qualche modo» o «estremamente» importante nella loro vita. E tutto questo con escursioni enormi al mutare di variabili come: credo professato, età, ricchezza del proprio paese2.

Relegare il ruolo pubblico della fede ad una fase ormai superata della nostra civiltà, europea e occidentale, sembra allora una posizione tutt’altro che neutrale, e, in un certo senso, poco lungimirante.

Tolleranza o verità?

Ben più complesso è, invece, fare i conti con l’accusa di intolleranza che viene mossa a  chi pretenda di annunciare una verità esclusiva, presupposto di qualsiasi fede intesa in senso forte. Parlare pubblicamente di una religione come “unica vera fede” ha da sempre alimentato l’odio verso chi professa religioni diverse. Dunque, perché continuare a farlo? In più, affermare che ciò in cui tu non credi sia falso non è offensivo?

Certamente, terribili episodi di violenza legati all’intolleranza religiosa hanno segnato in maniera indelebile questi ultimi vent’anni, e difendersi da quest’odio è stata un’esigenza innegabile. Ma questo proposito, legittimo e condivisibile, non è sufficiente a chiudere ogni dibattito in nome della “tolleranza ad ogni costo”. Il senso stesso del termine “tolleranza” ha subito, infatti, un radicale cambiamento. Banalizzando riflessioni importanti sui limiti di questo concetto, si è giunti ad affermare: «Non possiamo tollerare nulla di vagamente offensivo»3. “Essere tollerante” sembra voler dire, sempre di più, neutralizzare qualsiasi elemento di contrasto o potenzialmente offensivo, perché espressione di un pensiero intollerante nei confronti di chi la pensa diversamente. In questi termini, però, il rischio è quello di minare due presupposti fondamentali di qualsiasi società razionale e pronta al dialogo: il principio di verità e (paradossalmente) il rispetto della diversità.

Al posto di affermazioni esclusiviste quali «La mia è la vera fede», «Il mio è il vero Dio», non entra in gioco una generica (e peraltro, nei fatti, impossibile) posizione neutra, ma un’altra affermazione altrettanto esclusiva: «Non c’è nessuna vera fede, nessun vero dio». Ma il problema è che questo assoluto, a rigor di logica, potrebbe offendere chi professa in maniera radicale una fede. Ancor di più, questo tipo di “tolleranza” dovrebbe condurre ad uno scacco totale, nel quale ogni affermazione è “tollerata” solo fino a quando non entra in contrasto con l’ “intolleranza” di chi non “tollera” di non sentirsi “tollerato” da tale affermazione, finendo per fare della diversità un rimosso, più che un elemento da valorizzare. Ma, soprattutto, la verità di un’affermazione finisce per essere completamente esclusa da ogni giudizio sulla sua legittimità, e questa esclusione rende impossibile un dibattito serio e proficuo sugli argomenti più disparati. Vengono sabotati i presupposti di quel progresso che questa “tolleranza” vorrebbe promuovere, e che si nutre del confronto e del conflitto tra posizioni e verità divergenti: perché questo sia possibile, occorre una tolleranza intesa come rispetto di coloro le cui convinzioni fondamentali sono per noi false.

Insomma, se in gioco c’è la verità di un’affermazione, la discussione su di essa ha tutto il diritto di essere “pubblica”.

Parlare di fede in modo “tollerante”

Su questi presupposti, torna ad essere logico e necessario mettere alla prova la verità di quanto si sostiene e impegnarsi a dimostrarla, manifestando, allo stesso tempo, la volontà e «persino il desiderio di correggere qualcosa che abbiamo detto se viene dimostrato in modo convincente che non abbiamo detto la verità»4.

Ovviamente, tale atteggiamento è facile da auspicare, ma meno da mettere in pratica. Chiunque si sia trovato a discutere di simili argomenti sa benissimo come ciò richieda una dose di umiltà non indifferente e un sincero interesse nel giungere alla conclusione migliore, rinunciando al semplice gusto di “avere ragione” che solitamente anima entrambe le parti.

Sarebbe inutile e scorretto, del resto, negare come spesso siano i cristiani i primi a mostrare la propria incapacità di mettersi in discussione. Sebbene il presupposto sia di segno opposto, e quasi anacronistico («Non ho bisogno di discutere, perché la mia verità è incontestabile»), il risultato è ugualmente sconfortante: non si interagisce con la diversità e si fa un cattivo servizio alla verità.

Si può, dunque, parlare pubblicamente di fede in maniera proficua? Sì, se si parte dai giusti presupposti.

Dal punto di vista del cristiano c’è una chiara e ineludibile chiamata: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato». (Vangelo di Marco 16:15-16).

Eppure, per comprendere la natura di questa “predicazione”, è fondamentale tracciare una netta distinzione tra i significati che proselitismo ed evangelismo hanno per i cristiani. Riprendendo la definizione di Donald A. Carson, «la prima parola indica una testimonianza indegna, il tentativo di portare altri ad aderire alle nostre posizioni per motivi indegni o perfino corrotti. Per contro, evangelizzare è (nelle parole del Manifesto di Manila5) “presentare apertamente e in modo onesto il vangelo, lasciando chi ascolta interamente libero di decidere in merito”»6. Qualsiasi tentativo di fare proselitismo non solo non rientra nella visione cristiana e biblica dell’esposizione del vangelo, ma, anzi, le è contrario. Tuttavia, il confine tra le due azioni è tutt’altro che invalicabile ed è segnato principalmente dagli intenti e dai modi di chi parla. Affinché la distinzione sia correttamente mantenuta, bisognerà di volta in volta analizzare attentamente chi parla e di cosa parla. Allo stesso modo, un cristiano che intenda “evangelizzare” dovrà costantemente passare al vaglio le proprie parole e il proprio atteggiamento, per sforzarsi di presentare in modo sempre onesto il messaggio evangelico e di rispettare sempre la libertà di risposta di chi ascolta.

Ma perché un cristiano dovrebbe tenere così tanto al fatto che altri ascoltino la “sua verità”?

La conseguenze della verità

Negli ultimi mesi mi è capitato di ritornare più volte sul racconto della crocifissione di Gesù che fa Giovanni, evangelista e testimone oculare dell’evento. La particolarità del brano (Vangelo di Giovanni 19:17-42) è che, nonostante sia protagonista e fulcro di questo racconto, Gesù parla e agisce solo per 5 versetti. L’attenzione è rivolta, piuttosto, alle persone che si muovono attorno alla croce: Pilato, che fa mettere sopra di essa l’iscrizione: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei», pensando di fare un torto a quest’ultimi; i soldati, che cercano di guadagnare il più possibile con i vestiti del condannato; Giovanni stesso e alcune donne, che accompagnano Gesù negli ultimi momenti; Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, membri illustri del clero giudaico, che adesso mostrano pubblicamente la loro fede in Gesù, prendendosi cura della sua sepoltura.

Ognuno di loro ha una propria idea di Gesù, la propria verità su di lui. Le loro azioni lo manifestano.

Tutto il brano è, però, attraversato da una frase: «affinché si adempisse la Scrittura». Giovanni mostra come ogni azione di queste persone stia in realtà proclamando Gesù come re e Signore (sebbene nessuno di loro lo faccia intenzionalmente), confermando più volte, con dettagli concreti, quanto scritto da Davide e altri profeti secoli prima.

Ecco qualche esempio:

19 Pilato fece pure un’iscrizione e la pose sulla croce. V’era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l’iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. […]

23 I soldati dunque, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato, e anche la tunica. La tunica era senza cuciture, tessuta per intero dall’alto in basso. 24 Dissero dunque tra di loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocchi»; affinché si adempisse la Scrittura {che dice}:

«Hanno spartito fra loro le mie vesti e hanno tirato a sorte la mia tunica». Questo fecero dunque i soldati. […]

32 I soldati dunque vennero e spezzarono le gambe al primo, e poi anche all’altro che era crocifisso con lui; 33 ma giunti a Gesù, lo videro già morto e non gli spezzarono le gambe, 34 ma uno dei soldati gli forò il costato con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. […] 36 Poiché questo è avvenuto affinché si adempisse la Scrittura:

«Nessun osso di lui sarà spezzato».

Ognuno di loro, tanto chi crede in lui, quanto chi lo disprezza, sta qui facendo i conti con un’unica verità su Gesù e chi lui veramente sia. Gesù è presentato come il Dio che ha il controllo su ogni dettaglio della storia, compreso il momento stesso della sua morte:

28 Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, affinché si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29 C’era lì un vaso pieno d’aceto; posta dunque una spugna imbevuta d’aceto in cima a un ramo d’issopo, l’accostarono alla sua bocca. 30 Quando Gesù ebbe preso l’aceto, disse: «È compiuto!» E chinato il capo rese lo spirito.

C’è un solo Dio e un solo Signore, alla cui autorità ogni uomo e ogni donna, in ogni tempo, sono sottomessi.  Volente o nolente, ognuno di noi non fa che portare a compimento ciò che lui ha stabilito, in vista del momento in cui mostrerà pienamente la propria gloria. Ecco cosa crede il cristiano.

E crede che chiunque riconosca in Gesù questo Signore ha la garanzia di essere da lui accolto, e di prendere parte alla gloria di quel giorno. Ecco perché un cristiano tiene così profondamente a parlare a tutti della verità in cui crede. Ecco perché, alla fine dei conti, non può rimanere una questione privata.

Il modo più tollerante di parlarne è presentarla onestamente, discutendone con disponibilità, e rispettando la libertà di chi ascolta. Il modo più tollerante di ascoltarla sarebbe prenderla in considerazione per quello che vuole essere (verità), e prendersi del tempo per analizzarla e valutarne il fondamento. Non è importante che tutti siano d’accordo, ma che sia vero o no.

 

GT

 

  1. Limitandosi ad una recentissima pubblicazione, si segnala N. MacGregor, Vivere con gli dei. Genti e credenze. Ediz. illustrata, Adelphi, Milano, 2019.
  2. Parlare in termini assoluti di percentuale di popolazione legata ad una religione è quanto mai complicato, visto che le statistiche su scala così ampia vengono spesso condotte su fonti quali il numero di battezzati nella Chiesa Cattolica Romana, certamente oggettivi, ma di per sé poco utili a descrivere il peso attribuito a questa affiliazione dagli individui, e del tutto non indicativi dell’effettiva prosecuzione di essa (come giustamente sottolineato dall’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti).  Si rimanda, perciò, ad alcune ricerche condotte dal Pew Research Center, in particolare a questa sul “global God divide”, da cui è tratto il dato sul peso della religione nella vita degli europei qui citato.
  3. Per il concetto di paradosso della tolleranza si rimanda a K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol.1, Armando Editore, Roma, 2004, pp. 214-215. In estrema sintesi, il paradosso consisterebbe nella necessità di essere intolleranti verso l’intolleranza stessa, per preservare la natura tollerante di una società. Quella a cui si fa riferimento qui è la sua forma più banalizzata, che si riduce ad un divieto di dire qualcosa non appena qualcuno, per convinzioni personali, ritenga che sia sbagliato farlo.
  4. D.A. Carson, L’intolleranza della nuova tolleranza, Edizioni Gbu, Chieti, 2016, p. 198.
  5. Il testo fu pubblicato alla fine del congresso sull’evangelizzazione tenutosi a Manila nel 1989. Qui è disponibile il testo in italiano.
  6. D.A. Carson, L’intolleranza della nuova tolleranza, cit., p. 207.

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