Ci siamo mai chiesti cosa renda le “storie a puntate” un luogo bellissimo in cui trascorrere il nostro tempo libero? Oggi ciò avviene naturalmente su piattaforme web quali Netflix, Prime Video, Now TV e altre. Ieri si guardavano le serie TV settimanali e le sitcom come Friends, prima ancora erano le serie per adolescenti degli anni ’80; andando sempre più a ritroso, attraverseremmo le epoche dei fotoromanzi o dei romanzi a puntate sui quotidiani stampati. Ed è difficile non ammettere che la narrativa, qualunque sia il mezzo di diffusione del momento, sia sempre stato un genere artistico e letterario che va per la maggiore: ci piace leggere, ascoltare e guardare le storie… degli altri. Sì, perché ascoltare storie nelle quali non siamo noi i protagonisti ci aiuta a godercele: la vita reale è spesso faticosa da vivere e da capire dunque sedersi in poltrona ed essere intrattenuti dalle peripezie vissute da altri in un mondo di fantasia ha un qualcosa di liberatorio e catartico.
Il caso Bridgerton
Nel corso dell’anno trascorso da tutti noi in buona parte chiusi in casa, potremmo sostanzialmente riconoscere un certo debito di gratitudine verso quell’intrattenimento digitale che, nelle lunghe fasi di scarso contatto umano e vita sociale cui siamo stati costretti, ci ha aiutato a tenere occupate con leggerezza le nostre menti altrimenti appesantite dalle difficili circostanze. E proprio in questo clima, a cavallo tra il 2020 e il 2021, una delle serie più seguite a livello mondiale è stata la chiacchieratissima Bridgerton, ultima fatica della sceneggiatrice e produttrice Shonda Rhimes.
Inspiegabilmente, o forse proprio prevedibilmente, se consideriamo l’attrazione umana per ciò che appare esotico, la sua prima stagione ha tenuto incollati agli schermi una grossa fetta della popolazione occidentale, soprattutto femminile, in un semi-collettivo binge watch. Si tratta di una produzione in costume decisamente poco credibile nelle ambientazioni storiche e nella patinatura stucchevole di set e costumi, e non meno problematica sul fronte della recitazione forse eccessivamente sentimentale e stereotipata. Molto si potrebbe dunque interrogarsi sulle ragioni del suo grande seguito a fronte di tanti limiti artistici – e molti l’hanno fatto, in altre sedi sicuramente più appropriate di questa –, ma ciò che, invece, qui ci preme è una lineare analisi di una storia che a noi spettatori cristiani stimola quasi subito una più ampia riflessione su come una buona storia possa veicolare ideali di libertà e felicità che tocchino davvero le nostre vite, al di là della semplice “evasione”.
Quel lieto fine “degli altri”
La trama segue dei personaggi inizialmente insoddisfatti che lottano contro una serie di impedimenti per il raggiungimento della propria gioia e pacificazione finale. Si tratta di una serie piuttosto breve che tiene col fiato sospeso il pubblico solo per 8 puntate, prima di dar soddisfazione alle prevedibili attese. Gli autori hanno deciso di mettere l’enfasi su una emancipazione femminile rocambolesca, che è sostanzialmente una liberazione sessuale, ma che si fonda poi totalmente sul rassicurante assunto che “il vero amore esiste e vince su tutto”. Vince sugli egoismi, vince sul desiderio di vendetta, vince sulle convenzioni sociali, vince sulle ferite provocate da menzogne e tradimenti ripetuti della fiducia altrui, eccetera.
Bridgerton non ha grosse pretese di offrirsi come prodotto filmico “impegnato”, ma sicuramente si fregia di farsi portatore, in leggerezza, di una serie di ideali contemporanei che si vorrebbero ormai universalmente accettati (pur se collocati artificiosamente sullo sfondo storico dell’Inghilterra pre-Georgiana). Ideali che, nella vita reale di oggi, tutti dovremmo auspicare: inclusività, superamento del classismo e del razzismo, emancipazione femminile dal potere di culture patriarcali, libertà di espressione, essenziale bontà dell’animo umano, capacità di riscatto dei cattivi tramite atti di eroica bontà, valore supremo della libertà di amare chi si vuole.
Bridgerton è una fiaba contemporanea di amore, libertà e diversità che sembra soddisfare il nostro spirito, ma essendo fiaba, per quanto verosimile, continua a rimanere una storia senza grandi conseguenze nella nostra vita reale. Ci intrattiene, ma non ci mostra ideali diversi da quelli che la contemporaneità predica costantemente e che non pare abbiano davvero il potere di sbrogliare i nostri nodi esistenziali. Ci ha intrattenuto, mentre la pandemia imperversava, ma non ci ha dato speranza.
La storia vera di Rut
Vogliamo però provare a suggerire che esistano altri tipi di storie con altri scopi e con ben altre influenze sulla vita reale. Storie che hanno anch’esse talvolta un lieto fine, ma che non radicano su di esso la forza del proprio messaggio.
La Bibbia cristiana contiene, fra vari altre tipologie di testo, un racconto tutto al femminile che si fa portatore di interessantissime istanze di rinnovamento culturale: è la storia vera di Rut, una donna che vive gli alti e i bassi di un matrimonio multietnico, con fasi segnate dalla sterilità, dai lutti, dalla povertà, dallo sradicamento geografico, e che compie difficili scelte per rimettersi in gioco a livello lavorativo, con apertura mentale a contesti culturali sconosciuti e un totale ripensamento dei propri parametri di vita.
Rut è una donna che sperimenta tutta la complessità dell’esperienza femminile in una antica società politeistica araba dedita al commercio. È la protagonista di un breve racconto che la porterà ad un felice matrimonio, in seconde nozze – qui forse il suo “classico” lieto fine? – con un facoltoso ebreo, non proprio giovanissimo, dopo una fase iniziale della sua vita che la vede attraversare molte difficoltà. Incredibilmente per i nostri parametri letterari contemporanei, l’esperienza di Rut manifesta una radicale esperienza emotivo-religiosa più che una vicenda di impronta romantica. È un’eroina antica che manifesta tutti i caratteri universalmente comuni di una donna affamata di una propria affermazione identitaria alla ricerca della vera felicità. Ma a differenza della vicenda di Bridgerton, collocata su sfondo storico verosimigliante ma patinato e soddisfacente esclusivamente i nostri appetiti emotivo-voyeuristici (senza darci peraltro alcuna incoraggiante certezza che l’eroina Daphne abbia poi trovato uno stile di vita che potrà davvero garantirle stabile soddisfazione e gioia nella vita), la vicenda di Rut parla alla nostra anima di concetti trascendenti e straordinari che offrono una prospettiva di certezze di vita di portata universale.
Una fede inclusiva
Il racconto di Rut si innesta su quello degli Ebrei dell’era precedente all’Incarnazione del messia Gesù: all’inizio di questa storia, lei Madianita sposa un ebreo e inizia così un viaggio di avvicinamento al popolo e alla fede di lui, non solamente come assimilazione culturale, ma quale libera scelta di essere parte di qualcosa che la attira, che la convince profondamente, che può davvero includerla e che le apre le porte a benedizioni mai conosciute prima: la fede in Dio, il Dio degli Ebrei, che lei riconosce essere “il Signore”.
All’inizio del libro che racconta la sua storia, la donna giungerà a fare riflessioni e scelte scioccanti sono scioccanti per il suo contesto culturale e per le implicazioni che leggiamo nel resto del racconto:
Naomi disse a Rut: «Ecco, tua cognata se n’è tornata al suo popolo e ai suoi dèi; torna indietro anche tu, come tua cognata!» Ma Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e là sarò sepolta. Il Signore mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!»
(Rut 1:15-17)
C’è una donna che, conosciuta in tempo di pace la fede di suo marito e della sua famiglia, dopo aver vissuto la durezza del lutto e della povertà, decide che quel Dio (Signore persino sulle sue tragedie personali!) la chiama a rimanere fedele alla sua nuova famiglia e a lasciare la sua famiglia di sangue, la sua nazione e il suo credo precedente per seguirlo in una terra straniera dove si adora il suo nome e si conoscono le sue leggi.
Una vera speranza
È una storia dai dettagli intricati e radicata in usi e costumi profondamente distanti da noi (donne sole senza previdenza sociale che dipendono dalla protezione di uomini della famiglia, povertà senza assistenza sociale che si affronta con lavori servili, diritti di riscatto etnici che si esercitano “acquistando” diritti di discendenza come fossero terreni…), ma che, ad una lettura onesta che sa andare a fondo nella prospettiva storica, può riconoscere elementi che fanno della storia di Rut qualcosa di completamente diverso da quella di Daphne in Bridgerton: una storia di speranza e di portata universale. Rut non trova l’amore romantico, ma un contesto di protezione e dignità in cui “il Signore, il vostro Dio, è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e tremendo, che non ha riguardi personali e non accetta regali, che fa giustizia all’orfano e alla vedova, che ama lo straniero e gli dà pane e vestito” (Deut. 10:17-18) poteva provvedere per lei; Rut non trova un marito atletico e fotogenico, ma un marito che ha quel “timore di Dio” che lo porta ad agire senza sotterfugi per il proprio personale vantaggio e del cui carattere onesto e misericordioso molti potevano testimoniare; alla fine della storia, Rut non è “felice e contenta” semplicemente perché riesce a sposarsi di nuovo dopo la tragedia della sua vedovanza, ma perché ha trovato una nuova prospettiva:
«… hai abbandonato tuo padre, tua madre e il tuo paese natìo per venire a un popolo che prima non conoscevi. Il Signore ti dia il contraccambio di quel che hai fatto, e la tua ricompensa sia piena da parte del Signore, del Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti!»
(Rut 2:11-12)
Il vero lieto fine
Il nuovo corso della vita intrapreso da questa antica eroina, tra l’altro realmente esistita, è stato motivato dalla fede nel Dio d’Israele, che accoglie chi riconosce che solo presso di lui si può trovare un definitivo rifugio. Rifugio, dunque, non in un uomo, né in un amore che dura finché ce n’è, ma in una antica infallibile promessa, la promessa di un futuro discendente: Gesù Cristo. Sì, quel Gesù che non ci stanchiamo mai di chiamare in causa perché ogni storia finisca non con un lieto fine che semplicemente precede la prossima incerta nuova stagione, ma con un finale definitivo eterno e glorioso voluto e ottenuto da Dio. Un vero lieto fine, di cui abbiamo avuto un assaggio in questa storia che non è solo intrattenimento, ma lo strumento per scoprire le forme possibili di una vera speranza, che vale anche quale invito per lo spettatore.
SC